Il caso della giovane studentessa indiana, brutalmente violentata da cinque uomini e da un minorenne lo scorso dicembre a Nuova Delhi e successivamente deceduta, ha ripreso vigore negli ultimi giorni. Dopo solamente nove mesi, raro caso di rapida procedura giudiziaria indiana, un tribunale della capitale ha infatti emesso la propria sentenza, che prevede la condanna a morte dei quattro imputati (il minorenne sconterà la pena in carcere, mentre un altro accusato si è suicidato lo scorso marzo nel penitenziario di Tihar). Il giudice Yogesh Khanna, a seguito della sentenza, ha commentato che l’attacco dello scorso dicembre «ha scioccato la coscienza collettiva dell’India» e che pertanto «il tribunale non poteva chiudere un occhio» per un caso «che rientra all’interno delle rare casistiche che meritano la pena di morte».
Questo evento aveva scatenato forti proteste nella capitale indiana, contraddistinta per alcuni giorni da violenti scontri tra la polizia e giovani studenti nei pressi della residenza del Presidente dalla Repubblica e del Parlamento. Anche altre città del paese sono state caratterizzate da estese proteste e marce, mentre l’accaduto riscontrava una grande risonanza a livello internazionale. Il caso è stato seguito anche in Italia.
La decisione del tribunale è stata accolta positivamente sia a livello politico che popolare, visto che ci sono state anche manifestazioni di giubilo in diversi centri urbani dell’India.
Ciò che è accaduto e le molteplici reazioni successive, sia al brutale fatto contro la ragazza indiana che alla sentenza, possono portare a una serie di riflessioni. L’India è considerata a livello mondiale come uno dei paesi più pericolosi per le donne, non solo per le turiste. Quotidianamente i giornali indiani raccontano di violenze perpetrate nei confronti delle donne, un fenomeno che si collega al cosiddetto “femminicidio”, presente anche in Italia, ma che nel paese asiatico ha raggiunto un livello estremamente preoccupante. Il punto su cui riflettere non ricade tanto nella giusta e ovvia condanna dell’atto di violenza. La pena dovrebbe però aderire a un’idea di giustizia, piuttosto che di vendetta. Le scene di tripudio in India per la condanna a morte di quattro persone pongono diverse questioni; il problema della violenza nei confronti delle donne è risolvibile in questa maniera? Oppure si è trattata di una sentenza per placare gli animi e “accontentare” l’opinione pubblica colpita dall’efferatezza della violenza.
In questi giorni, così come nelle settimane successive alla morte della giovane studentessa indiana, è emerso un acceso dibattito nei media indiani a proposito della violenza nei confronti delle donne. I commenti dei politici, sia della maggioranza che dell’opposizione, sono stati tutti unanimi nel richiedere la condanna a morte. Ad esempio, il capo dell’opposizione alla Lok Sabha (Camera bassa del Parlamento) Sushma Swaraj del Bharatiya Janata Party (BJP), oltre a ricordare la mancanza di sicurezza nel paese a causa dell’amministrazione del Congresso, ha sostenuto di avere personalmente sollevato la richiesta di pena capitale per i quattro accusati, poiché in questa maniera tutto ciò «risulterà un modello per il paese e frenerà efficacemente gli episodi futuri di stupro». L’idea di base è dunque che l’impiccagione dei colpevoli agirà da deterrente per evitare le violenze nei confronti delle donne. L’impressione è che invece i politici sfruttino questo tipo di eventi per propri fini elettorali; non va dimenticato che il prossimo anno ci saranno le elezioni nazionali e ogni evento può essere utilizzato per criticare l’avversario politico di turno o per raccogliere consenso popolare su temi di largo seguito. Anche i recenti scontri tra comunità indù e musulmane nell’Uttar Pradesh dimostrano questa prospettiva, con i diversi partiti che si sono accusati a vicenda.
Un’altra tipologia di reazione condivisa da diverse personalità politiche, maggiormente legate all’universo religioso, ma anche da quelle tradizionalmente vicine ai partiti secolari, è connessa a una sorta di “condanna” della stessa vittima, e in generale delle ragazze e donne indiane che vestono in una maniera differente rispetto ai costumi indiani, che decidono di uscire con il fidanzato o che fanno tardi la sera. Secondo alcuni leader politici, la causa primaria è che vengono superati certi limiti considerati invalicabili per l’universo femminile indiano, così come fece Sita, quando venne rapita dal demone Ravana. Il problema sarebbe inoltre collegato alla cattiva influenza occidentale nelle città indiane: la donna non dovrebbe essere libera di vestire nella maniera in cui più le aggrada, ma dovrebbe seguire certi parametri culturali per non innescare istinti nascosti e violenti degli uomini. In questo senso, come non ricordare le affermazioni del leader del Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS), Mohan Bhagwat, il quale sostenne che «gli stupri accadono in India, non nel Bharat»: il che significa che le violenze avvengono nei centri urbani, influenzati negativamente dall’Occidente, non nelle aree rurali. Sorprendenti sono state anche le affermazioni del figlio del Presidente della Repubblica Pranab Mukherjee, Abhijit Mukherjee (Congresso), secondo il quale le donne che partecipavano alle marce in ricordo della giovane vittima «vanno in discoteca … posso osservare diverse belle donne tra loro, molto ben truccate e che vestono i pantaloni, ma ho seri dubbi che siano realmente studentesse».
La pena di morte, come già ricordava Cesare Beccaria nel suo Dei delitti e delle pene del 1764, non è provato che comporti un calo dei crimini e non è detto che sia un deterrente efficace. Così è anche il caso degli stupri in India, perché le violenze contro le donne avvengono ancora quotidianamente, sia nelle città che negli stessi villaggi. Non si tratta dunque in questo caso di un problema d’influenza culturale occidentale negativa. Come si spiegano infatti le recenti accuse nei confronti del controverso predicatore indù Asaram Bapu di aver assalito sessualmente una giovane adolescente? Molto spesso ci sono casi di violenza anche contro bambine. Che colpe avrebbero? Escono forse la sera tardi o vestono in maniera sbagliata? Sorge il dubbio inoltre, che il caso della povera ragazza di Nuova Delhi abbia avuto una risonanza mediatica maggiore rispetto agli stupri dimenticati che coinvolgono donne di una classe sociale più bassa o appartenenti ai gruppi tribali.
Il punto è che la questione è ben più complessa e necessita una risposta molto più approfondita ed efficace, rispetto alla scelta di condannare i colpevoli alla pena di morte o alle affermazioni esecrabili di politici attenti al proprio tornaconto elettorale. In questo modo si pone solamente la polvere sotto al tappeto, senza rimuoverla. Il problema non riguarda certamente una modifica della cultura indiana o della religione indù, le quali dispongono di enormi ricchezze e non prevedono la violenza nei confronti della donna.
È necessario potenziare l’educazione, prima di tutto in famiglia e in secondo luogo in ambito scolastico ed universitario, in modo tale da far crescere individui capaci di rispettare le donne in quanto esseri umani con pari dignità. Non è solamente da rafforzare il sistema di sicurezza o le leggi atte a prevenire gli stupri, queste ultime comunque positivamente migliorate negli ultimi mesi. Assieme a tutto ciò, è da modificare una certa mentalità e il concetto, presente in una parte d’India, ma anche in altre zone del mondo, che la donna possa subire il potere indiscriminato dell’uomo nei molteplici aspetti della vita di ogni giorno. Finché nelle famiglie saranno inculcati ideali, anche dalle stesse donne indiane, che l’uomo è il “re indiscusso della famiglia” e che le donne del nucleo familiare devono essere totalmente soggiogate a lui, la mentalità a livello sociale non cambierà; e ci potranno essere personalità deviate che considerano possibile portare all’estremo questo ideale di superiorità, considerando legittimo un proprio atto di violenza nei confronti di una donna. Quest’ultima azione, se avviene in gruppo è probabilmente percepita come più efficace, poiché testimonia in maniera maggiore una sorta di superiorità nei confronti delle vittime da soggiogare al proprio potere. La scuola può aiutare in questo senso, rafforzando anche l’idea che la violenza è in ogni caso sbagliata, anche come risposta vendicativa a crimini efferati. L’ignoranza e la povertà, soprattutto la prima, rappresentano spesso i fattori ideali per far attecchire e prosperare certe mentalità. Dove non può arrivare la famiglia o la scuola, ad esempio nelle situazioni di estrema povertà, lo Stato, la comunità locale, le associazioni o gli attivisti dovrebbero cercare di supportare la formazione degli individui emarginati.
La situazione delle donne in India è certamente allarmante. Sarebbe però sbagliato fare di tutta un’erba un fascio. Ho potuto constatare direttamente che ci sono ambienti in cui le donne sono considerate positivamente, famiglie dove sono fortemente rispettate e nelle quali dispongono di un ruolo imprescindibile per gli equilibri familiari, anche in aree rurali. La cultura indiana dispone dei mezzi per superare questo complesso problema. In questo senso un aspetto positivo è dato dal fatto che sono già attivi da diversi anni specifici programmi statali per aiutare le donne, in particolare nei villaggi, a uscire da una condizione di disagio in un sistema prettamente patriarcale. Questo potrebbe essere certamente un fattore per guardare al futuro con maggiore ottimismo.
One thought on “Contro gli stupri in India (non) si sa di che morte morire…”